Max mi fissava con gli occhi spenti porgendomi il caffè sul bancone del
bar. Era il primo giorno di primavera, faceva freddo e pioveva. L'albergo
Capriolo sembrava ancora più vecchio e triste nella sua solitudine da
Provinciale della Val Brembana. Il punto esatto sulla carta era tra Isola di
Fondra e Trabuchello, a settecento metri di altitudine e a quarantacinque
chilometri da Bergamo. I turisti di passaggio erano una miseria, nonostante
la vista del Monte Torcola e, con il bel tempo, della cima di Pietra Quadra.
Si riempiva solo a Natale, quando le stazioni sciistiche intorno a Foppolo
erano al completo. Per il resto dell'anno dovevamo accontentarci delle
coppiette clandestine e di qualche comitiva di tedeschi finita fuori strada.
Oltre ai camionisti della San Pellegrino, che si fermavano a pranzo attratti
dal menù casalingo a prezzo fisso.
La scarsità di clienti faceva il paio con quella del personale. Eravamo in
sei: io, Max che fungeva da barista e portiere, Ciccio, cameriere a tempo
pieno, Giovanna, cameriera a mezzo servizio, Rosa, settantenne addetta ai
piani, e Nano lo sguattero. Poi c'era la Direttora, nostra signora e padrona,
da due giorni in città a litigare con banche e fornitori. Il padre si era
indebitato sino al collo per ottenere la licenza di aprire una spa, e poi per
costruirla nel prato sul retro. Era morto lo stesso giorno in cui gli avevano
chiuso la linea di credito, volando fuori da un tornante con l'automobile.
La spa, da allora, era rimasta come l'aveva lasciata, un parallelepipedo in
pietra arenaria ecocompatibile, senza arredi, muri divisori o allacciamenti
alla rete idrica. Sarebbe rimasta così, probabilmente, sino alla fine dei
tempi.
Max si grattò i baffi da pescegatto. «Ti ho sentito rientrare, stanotte. Che
ore erano? Le quattro?»
«Sì mamma.» Max aveva la stanza proprio accanto alla mia.
«Eri sbronzo.»
«Che ne sai?»
«Sbattevi contro i mobili.»
Ecco perché avevo un livido sulla coscia sinistra. Rosa arrivò preceduta
dal fischio lacerante dell'aspirapolvere e io mi rifugiai nel silenzio del mio
regno oltre le porte basculanti della sala. Era una cucina piuttosto piccola
anche per un albergo con solo trenta camere e cinquanta coperti: otto metri
nel lato lungo, sei in quello corto, piastrellata come si conviene fin quasi al
soffitto. Sul fondo si apriva la porta che dava al cortile, nella parete destra
una finestrona con le sbarre e i vetri smerigliati. Al centro il motore di
tutto, otto fuochi d'acciaio e la piastra quadrata di ghisa. Il mio unico
contributo all'arredo, quando ero arrivato due anni e rotti prima, era stato
uno scaffale di metallo vicino alla porta del cortile che si era riempito un
po' alla volta di libri di cucina e dei romanzi di fantascienza che leggevo
tra un servizio e l'altro.
Nano stava già pelando le patate e mi salutò biascica...
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